Francavilla Angitola - Il Paese del Drago
Francavilla Angitola è stato un paese in cui l’agricoltura ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella sua economia anche se non ci sono stati grandi latifondisti ma solo medi e piccoli proprietari, coloni e braccianti giornalieri che coltivando la terra garantivano una vita dignitosa alla propria famiglia.
La "terra", aldilà della condizione dei contadini rispetto alla proprietà o al tipo di contratto, è stata per tutti sinonimo di sacrifici per coltivarla, di dura fatica, perchè quasi sempre condotta senza nessun ausilio meccanico, ma solo ed unicamente “cu a zappa” ed è stata anche il modo attraverso cui potersi guadagnare il pane.
Per molti contadini la "terra" è stata anche casa, famiglia, speranze, progetti, avvenire, morte... Per quasi tutti la "terra" era il centro e al tempo stesso il confine dell'universo. Su quella "terra" si nasceva e su quella "terra" si moriva.
Di "terra", di colture, “e simienti” e delle condizioni del tempo, di quella pioggia che non voleva proprio arrivare o che al contrario non voleva mai smettere si parlava in continuazione, spesso citando i detti della cultura popolare e proverbi che a secondo della stagione, di generazione in generazione, ormai si tramandavano.
Queste "terre" erano spesso posizionati su dei sentieri scoscesi o molto distanti da Francavilla Angitola, fuori dal territorio del paese, nei territori dei comuni limitrofi come Pizzo Calabro, Vibo Valentia e perfino a Tropea e i contadini erano costretti a raggiungerli a piedi non avendo i soldi per il mezzo pubblico, “u postali”. Ciò voleva dire che prima di affrontare una dura e lunga giornata di lavoro, dalla mattina all’alba fino a sera, bisognava prima con il buio della mattina e della sera poi, camminare per decine di chilometri, mentre le donne erano costrette a caricarsi sulla testa dei gravosi recipienti, - “cofineja", "varrili", "ruvaci" - pieni dei prodotti che bisognava trasportare.
La produzione agricola era caratterizzata dalla coltivazione di grano, ulivi, viti, alberi da frutto, ortaggi. Pochi erano i boschi e i territori adibiti a pascoli. Francavilla Angitola da quando io ricordo non è stato un paese in cui la pastorizia ha avuto un ruolo preminente.
Una considerazione a parte va fatta per le colture nei pressi delle proprietà vicino al mare “a marina” e nella piana di Santa Eufemia, dove i nostri contadini erano chiamati a lavorare,che erano caratterizzati da estesi agrumeti di arance, limoni, mandarini e di clementine.
Dal tipo di colture si può dedurre che le produzioni oltre ad essere caratterizzate dal fatto che fornivano il pane per poter vivere non richiedevano la costante presenza e cura dei contadini. Non c’era bisogno che i contadini avessero “i casieji” sul terreno. La manodopera si rendeva maggiormente utile e necessaria solo stagionalmente: per zappare e seminare in autunno, per la mietitura e la trebbiatura all’inizio dell’estate.Un paesaggio agricolo quindi quello di Francavilla Angitola abbastanza nudo senza case con poche masserie sparse su ampi spazi e con insediamenti accentrati nel paese dove vivevano i braccianti e i contadini.
L’ evolversi della società negli ultimi cinquanta anni, la rapida affermazione della tecnica e l’ industrializzazione spinta, hanno reso superati i modi e le tecniche tradizionali di coltura delle campagne, apportando sconvolgimenti anche nei rapporti interpersonali nelle famiglie patriarcali. Di fronte a tale rapida evoluzione, la tradizionale cultura del mondo contadino ha rischiato così di scomparire, essendo cessata la trasmissione di una sapienza antica alle giovani generazioni. Con la perdita della tradizione hanno rischiato di essere dimenticate tecniche secolari di lavorazione in uso nel mondo contadino, quella cultura orale che senza l’ausilio di testi scritti aveva saputo tuttavia formare generazioni e generazioni di lavoratori della terra, l’innumerevole serie di termini legati a questa specifica cultura che arricchivano la lingua calabrese, nonché i canti e le filastrocche che accompagnavano i diversi momenti del vivere sociale.
La "terra" intesa come fonte di sostentamento, cultura contadina e colture, contratti onerosi per i lavoratori, è stata abbandonata sul finire del secolo passato, e poi nel secondo dopoguerra. Schiere di emigranti verso le Americhe prima, e legioni di addetti alla catena di montaggio poi, hanno lasciato le campagne e affollato le fabbriche per dare alle famiglie un futuro più prospero.
Si lasciavano nelle case sui campi i loro vecchi e tutto un patrimonio di esperienze ormai inutili davanti al progredire della plastica, allo scialo di energia a basso costo che muoveva ogni macchina indifferente all’andamento delle stagioni. Erano figli dell’età dell’aratro uomini e donne che avevano imparato a conoscere fin da bambini le diverse qualità dei legni e delle erbe, e i loro usi.
Quel mondo contadino fatto di fatica e miseria è approdato col tempo ad una società profondamente modernizzata, libera da antiche pene, agli agi modesti ma rilevanti che lo sviluppo ha portato anche nel Sud la seconda metà del novecento.
Il mondo contadino è scomparso; ad esso è subentrata una nuova fase storica che quel mondo ha assorbito in un equilibrio sociale stabile, più libero, più aperto al cambiamento, all’informazione.
Non ho nessuna nostalgia per quella società di privazioni e di stenti, nessuna nostalgia per l’oppressione che gravava sulla gran parte delle donne e degli uomini che quel mondo tenevano in piedi, nessuna voglia di tornare indietro ma la corsa allo sviluppo è diventata una corsa sregolata verso la distruzione di ogni cosa: risorse, territori, rapporti umani.
Ma lo svuotamento di senso dell’agire sociale, il prosciugamento di ambiti sempre più estesi della vita spirituale, non mi consentono oggi di guardare al progresso socio-economico e tecnologico della società contemporanea, che ha sommerso la realtà contadina, con la sicurezza fiduciosa di un tempo.
Le foto sono state gentilmente concesse da Pino Pungitore CH
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