Francavilla Angitola - Il Paese del Drago
Quello di Francavilla Angitola negli anni passati era considerato un territorio, dove si producevano degli ottimi vini bianchi e rossi tra i quali quelli di zibibbo e di fragola.
Al vino e in modo particolare alla vendemmia e conseguentemente all’uva sono legati molti miei ricordi.
Come dimenticare quel lavorio che già verso la metà di settembre si poteva osservare passando tra le “rughe “ del paese?
Chi esponeva al sole le doghe o i coperchi delle botti che apparivano rossicci perché erano stati a contatto con la feccia.
Chi stava aggiustando le doghe “de gutti” (botti) piuttosto che quelle dei tini o “de varrili” (barili) cercando di far scendere i cerchi in metallo aiutandosi con scalpelli e martello producendo un rumore metallico e cupo che si propagava per tutti i vicoli adiacenti.
C’era chi stava bruciando bisolfiti dentro le botti per disinfettarle o chi stava lavando gli stessi con la “vinazza”.
Tutto il paese era, è il caso di dire, in fermento.
Aprivano i “parmienti” e l’odore di mosto si diffondeva nei vicoli inebriandoci.
I proprietari che dovevano vendemmiare cominciavano a prenotare la manodopera insieme ai mezzi di trasporto necessari per trasferire l’uva dal vigneto al palmento.
In molti casi questa fase era molto complessa e richiedeva un lavoro molto duro.
Un lavoro che vedeva le donne in prima linea d’altronde come sempre a fare il lavoro più duro: tanto per cambiare, costrette a caricarsi sulla testa i “ruvaci” che contenevano l’uva raccolta che era poi riversata dentro i tini collocati sul mezzo di trasporto.
Per i vigneti dislocati su terreni poco scoscesi o pianeggianti quest’operazione di trasporto si esplicava utilizzando l’instancabile, paziente e insostituibile asino.
La data della raccolta dell’uva era legata alla stagione climatica, alla sua maturazione che era verificata ogni giorno dai contadini che grazie alla loro esperienza potevano determinare se il frutto aveva raggiunto il giusto rapporto fra zucchero ed acidità.
Solo allora s’iniziava a vendemmiare armati di tanta allegria, di forbici e cesti.
Iniziare la raccolta un giorno prima o un giorno dopo poteva e può determinare il risultato dell’intera raccolta e quindi della qualità del vino.
S’iniziava la mattina molto presto recandosi in campagna a piedi e già da quella che spesso era una lunga camminata, si poteva capire quale atmosfera si sarebbe respirata durante tutta la giornata.
Ognuno portava con sé gli strumenti di lavoro.
In modo particolare le donne erano tutte fornite di “ruvaci, panaru e curuna”.
L’uva trasportata al paese si doveva portare nel palmento e in modo particolare per chi voleva utilizzare quello di Pallone a Pendino c’era un supplemento di lavoro.
Il mezzo di trasporto, infatti, non poteva raggiungerlo, si fermava “supa o chianu” e si doveva ricominciare con i ruvaci.
L’uva era scaricata in una grande vasca, dove gli uomini con i pantaloni alzati fino al ginocchio la schiacciavano per farne uscire il mosto.
Insieme agli uomini nella vasca entravamo anche noi bambini che felici imitavamo i grandi.
Era poi passata nello strettoio e infine tutto il mosto era trasportato nella cantina per essere curato fino a diventare vino.
Alle donne che avevano partecipato alla vendemmia, era tradizione donare un paniere di uva. Uva che era consumata a tavola o con la quale molte facevano la marmellata .
A me piaceva molto mangiarla con il pane.
Quanto era buona l’uva con il pane!
In quel periodo tra l’altro bollendo il mosto si faceva il vino cotto che poi sarebbe stato usato per fare dei dolci, in modo particolare nel periodo di carnevale, i graviuoli, o si metteva dentro la neve nel caso in cui questa fosse arrivata durante l’inverno.
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