La Mietitura
Trebbiatrice;

La primavera con tutti i suoi colori sembra voler fare da cornice e da palcoscenico a quella che da sempre è la più bella festa della campagna.

Una cornice fatta da tantissime margheritine, da tanti fiori bianchi e rosa che colorano i rami degli alberi da frutta e da tanti fiorellini multicolori che arricchiscono i prati fino ad arrivare ai papaveri, che con il loro colore rosso acceso caratterizzano interi campi, e alla ginestra, che con i suoi fiori riempie di giallo molti sentieri. Ai colori vanno aggiunti i profumi che rendono l’aria piacevole, dolce e salubre.

Attraverso questa scenografia si arriva al mese di giugno, l’ora della mietitura. E’ la festa. C’è il raccolto, c’è il frutto di tanto duro lavoro che, attraverso un altro sforzo, diventa grano e quindi pane.

Da sempre l’inizio della mietitura è considerato una festa e, attraverso i secoli, le tradizioni e le credenze religiose si sono succedute con forme e modi per ringraziare la Divina Provvidenza piuttosto che madre terra.

Il mio ricordo è legato alla mia infanzia e alla mia adolescenza quando mi recavo in campagna con i miei genitori e potevo assistere alla mietitura e a tutti gli eventi che la caratterizzavano.

Ci si alzava la mattina molto presto e tutta l’allegra compagnia si recava in campagna a piedi. Gli uomini portavano gli attrezzi di lavoro mentre le donne, dentro enormi “cofinieji” sulla testa, trasportavano tantissime vivande che sarebbero state servite e consumate durante la giornata.
Insieme alle vivande e sempre sulla testa le donne  portavano enormi “vuozzi e corduni” (Brocche di terracotta) con dentro l’acqua e naturalmente in appropriati contenitori tantissimo vino.

Si cominciava a mietere molto presto per approfittare dell’aria fresca del mattino e verso le nove si faceva già una prima sosta durante la quale si serviva “u morzieju” ,una ricca colazione a base di soppressate, olive, formaggi e ogni altro ben di Dio. Naturalmente il tutto era accompagnato dal pane fresco fatto in casa e da tantissimo vino.

La campagna era allietata dai canti e dai racconti dei contadini. Gli uomini indossavano “u cammisuotto” , una casacca di tela bianca che oltre ad evitare di sporcarsi con gli steli delle spighe aveva anche il compito di respingere il sole. Alcuni indossavano a “pajjetta”, un cappello molto leggero, e quasi tutti dei fazzoletti intorno al collo.

Alle dita indossavano “i cannieji”,  particolari paradita costruite di canna per evitare di tagliarsi con “u faciuni” (la falce). Ovviamente la falce è lo strumento principe e simbolo della mietitura.

I mietitori tenevano la falce con la destra e afferravano con la sinistra le spighe che erano falciate. La quantità di spighe che entravano in una mano si chiamavano “jiermiti”. Questi ultimi lasciati cadere per terra dai mietitori dopo averli legati con gli steli delle spighe erano raccolti dalle donne che li seguivano.

Quattro “jiermiti” legati insieme costituivano una “gregna”.&I “griegni” erano portati dalle donne sull’aia, dove con questi veniva costruita a “timogna”, la quale era costruita con grande capacità dai contadini e assomigliava a un “pajjaru” e in caso di pioggia non faceva filtrare l’acqua.

Completata la mietitura per essere certi che tutte le spighe fossero state raccolte, alcune donne denominate “spigolaie” passavano in rassegna tutto il campo e, con le spighe che trovavano, facevano dei mazzetti che si chiamavano “scilidona”.

Il sole estivo con la sua calura e la polvere causata dal taglio del grano, nonché le pagliuzze che volavano e si appiccicavano addosso, facevano asciugare la gola e solo una grande quantità di vino riusciva a mitigare quest’ arsura e a far continuare in allegria il lavoro.

I canti erano spesso delle frasi con le quali si cercava di mandare dei messaggi ai proprietari o anche a qualche ragazza presente alla quale si voleva comunicare il proprio amore.

Finalmente è mezzogiorno, l’ora del pranzo e che pranzo!

Nemmeno il giorno del matrimonio si mangiava tanto e bene. Si apparecchiava su delle tovaglie a quadri di color rossiccio sistemate per terra. Su questa tavola un po’ scomoda si sistemavano i cibi che erano stati preparati dalle donne.

Dalla pasta con la carne, allora era una vera rarità, alle soppressate e al capicollo, dalle olive e al formaggio, alle polpette di melanzane e a quelle di patate. Inutile dire che il vino servito dal “cannavaru” scorreva come l’acqua.

Naca;

Alla fine della giornata era normale che qualche mietitore tornasse a casa ubriaco.

A differenza di oggi che la natalità è molto bassa, allora erano molte le donne che avevano dei neonati da accudire e non essendoci ancora gli omogeneizzati ma solo il latte materno erano costrette a portarli con loro in campagna.

Erano lasciati dentro la “naca”.

Una particolare culla costruita con delle canne o con dei vimini e che era fissata a dei pali per tenerla sospesa da terra.

Conclusa la mietitura si aspettava con impazienza il giorno in cui arrivava la trebbiatrice. Anche questa incombenza per i grandi diventava una giornata di festa per noi ragazzi.

Alla curiosità per la vista di questa enorme macchina e al suo funzionamento si accompagnava l’eccitazione per la frenesia che caratterizzava il lavoro di tutti.

Alcuni infilavano i “griegni” dentro la trebbiatrice, altri raccoglievano il grano, altri ancora sistemavano le balle di paglia.

Anche quest’occasione era caratterizzata da canti e suoni,da cibi squisiti e dallo scorrere di tantissimo vino.

Il grano raccolto dentro i sacchi di juta era conservato in contenitori di legno chiamati “casciuni” da cui era prelevato per portarlo al mulino per la macina e ottenere la farina per fare il pane.

Spighe di grano

 

 

 

 

Falci

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