Spirdi monacieji e cutumaffi
Pendinu

Spirdi, monacieji, magare, gabbatieji cu i peda russi, testa cu dienti e manicu e pala e, naturalmente, cutumaffi per le nuove generazioni sono definizioni che non dicono niente.

Per la mia e quelle che l’hanno preceduta sono state parole che prima ci hanno terrorizzato, poi intimidito e infine, ai più, fatto ridere.

"Spirdi" era, infatti, il nome con il qualei gli "adulti" chiamavano gli spiriti delle anime di chi era deceduto in modo accidentale per le vie del paese o delle campagne ad esso limitrofe.

I monacieji erano gli spiriti delle anime dei bimbi che, secondo la tradizione popolare, sarebbero apparsi vestiti con il saio di San Francesco di Paola, mentre gli altri erano giochi di parole che pronunciate in modo minaccioso, incutevano paura ai piccoli.

Ai miei tempi non c’era il lupo cattivo o l’orco e le fiabe a volte raccontate dagli adulti, non ci turbavano.

La mia è stata la generazione che è cresciuta "per strada" e i giochi che facevamo ci portavano spesso a varcare i "confini" del paese.

Giochi come ammucciateja, liberatu e savoia, che vedevano coinvolti decine di ragazzini che si influenzavano a vicenda e a vicenda si sfidavano, ci portavano a superare qualsiasi paura e trovare il coraggio di disattendere tutte le raccomandazioni che i nostri genitori facevano ad ognuno di noi.

Quando si stava nel paese tutti noi ragazzini eravamo sotto l’attento e vigile controllo della comunità e tutti eravamo i figli di tutti; la solidarietà e il senso di responsabilità della stragrande maggioranza degli adulti faceva sì che i genitori che andavano a lavorare o erano costretti ad assentarsi per qualche motivo potessero stare molto tranquilli.

Fuori dai confini del paese, però era necessario "costruire delle porte" mentali e psicologiche per limitare la possibilità, per i più piccoli, di allontanarsi dallo stesso.

Con il tempo ho potuto collegare tutti i luoghi dove si dava per certa la presenza degli "spirdi" con le strade di accesso e, quindi, di uscita dal paese: u dragu e i cierzi e quaranta, il cimitero, le strade che portavano a Talagone e la Frischia, quella che portava a "perricchiu" e quelle che portavano oltre il calvario di Pendino, senza dimenticare "u spirdu" che stava sulla strada che conduceva a "pezzuju".

Certo di giorno quando andavamo a raccogliere l’origano o a cercare i nidi degli uccelli o a trovare i granchi rigirando tutti i sassi del fiume, risalendolo dalla Frischia, a dire la verità agli "spirdi" non ci pensavamo molto ma, la sera, momento ideale per la loro apparizione, più di qualcuno di noi aveva qualche timore.

Se poi, come spesso capitava ai più influenzabili, si raccontava di averne visto qualcuno e nel racconto entrava nei particolari, riconfermando così in qualche modo i racconti dei nostri genitori, allora i coraggiosi si riducevano rapidamente.

I più di noi erano però disposti ad osare, a sfidare e, se necessario, vedere per credere.

Non a caso io, Michele Ventrice, Antonio Gaccetta, Armando Salatino, Ciccio Pungitore, Domenico Drogo, Armando Torchia, Pino e Domenico(Claudio) Simonetti e altri non ci ponevamo limiti, correvamo in tutte le direzioni e il più lontano possibile per cercare di vincere la partita del gioco che quella sera avevamo deciso di fare. Non so se ancora oggi si ricorre "e spirdi" per cercare di limitare i bambini nei loro spostamenti; certo è che, se pur nella loro drammaticità, queste storie, oltre ad affondare le loro radici nella tradizione popolare, sono anche la testimonianza che una comunità solidale si dava dei valori condivisi per tutelare i propri figli dai pericoli dentro e fuori le mura abitate.

Gli ancestrali ricordi facevano il resto; non si cancellano infatti millenni di storia fatti di assedi dal mare e dalla terra da parte dei popoli più disparati che, al suono dei tamburi, seguiti da lunghi cortei con tante torce accese e da migliaia di soldati operavano razzie, violenze e rapimenti.

 

 

 

 

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