Il Pane
Cipasturi

Quella del pane è una storia antica quanto il mondo o almeno quanto la presenza dell’uomo sulla terra e alla sua attuale forma, consistenza e produzione hanno contribuito diversi popoli e culture che nel tempo si sono alternati.

Da ricerche effettuate si è potuto accertare che i nostri antenati lo producevano con un impasto formato da ghiande schiacciate e acqua e lo cuocevano su lastre roventi.

Dopo molti anni scoprirono che la farina ottenuta dai cereali macinati era più idonea allo scopo e la sostituirono alle ghiande.

Agli egizi dobbiamo la scoperta, forse per caso, della lievitazione dell’impasto che cotto il giorno dopo produceva un pane molto più morbido.

Agli antichi greci insieme alle prime regole per la panificazione dobbiamo anche l’istituzione dei primi forni pubblici e la produzione di pane con l’aggiunta di latte e spezie al primitivo composto di farina.

Ma è con l'antica Roma che il pane diventa il cibo di tutti e proprio per la sua importanza nell’alimentazione della popolazione il prezzo della farina di frumento necessaria alla panificazione viene stabilito per legge in modo tale da essere il più basso del mercato.

Se con l’affermazione dell’antica Roma il pane diventa cibo per tutti, con la caduta del suo impero la cultura del pane e panifici viene dispersa.

Durante il periodo del Medio Evo la popolazione, viste le condizioni di vita a cui erano sottoposti i servi della gleba, non potendosi permettere il pane fatto con farina di frumento, questa era solo per i signorotti, torna ad usare cereali come il farro, l’orzo o altri.

Il salto di qualità si ha durante il Rinascimento, con l’utilizzo del lievito di birra e delle farine pregiate il pane inizia a vivere un periodo di crescita fino ad arrivare a come oggi lo conosciamo.

Oggi sugli scaffali di qualsiasi fornaio si trova una grande varietà di pane. Pane di farina bianca, pane di crusca, pane che oltre alla farina ha anche altri ingredienti. La varietà oltre che agli ingredienti riguarda anche la forma e il tipo di lievitazione.

Quando ero ragazzo e vivevo nel borgo di Pendino a Francavilla Angitola il pane, con una frequenza di dieci o quindici giorni,  quasi tutte le famiglie lo facevano  in casa . Erano pochi, o solo quando si trovavano in una situazione di forza di causa maggiore, i francavillesi che lo acquistavano presso il panificio della famiglia Ionadi situato sopra il Piano.

Durante la guerra, periodo che fortunatamente non ho vissuto, si faceva, mi raccontava mia madre, “u pana bruniettu”  un pane impastato utilizzando le semola del grano ottenuta “cernijandu” con un “crivu” più largo quello che restava una volta tolta la farina. Ironia della sorte vuole che quel pane che allora era consumato per necessità mancando la farina, oggi, detto integrale viene utilizzato dalle persone che hanno problemi di obesità  o più in generale di linea.

Fare il pane in casa, incombenza che tanto  per cambiare ricadeva sulle donne, era un lavoro pesante che richiedeva un certo impegno e che sottraeva una giornata di lavoro alla campagna.

Si cominciava col prelevare una certa quantità di grano da “u casciuni” che si poneva dentro un sacco di  juta che le donne portavano sulla testa  “o mulinu” e “cumpara Nicola Condello ”   per ottenere la farina, che veniva portata a casa sempre sulla testa dalle donne dentro “u ciarmieju”.

La farina una volta portata a casa con un lavoro di braccia e con l’ausilio “do crivu” veniva “cernijiata”, cioè veniva separata dalla semola e dalla crusca (canijja). La crusca oltre che per produrre qualche pagnotta di pane nero veniva utilizzata per fare dei pastoni per i maiali. Mentre la semola, come già accennato prima,si utilizzava per produrre “u pana bruniettu”.

Chi non aveva il forno, mia madre utilizzava quello di nonna Barbara, doveva trovare la disponibilità dei vicini che compensavano questa disponibilità con una “vucciajata”.

Stabilito il giorno e trovato il lievito “u lavatu”, che si passava di famiglia in famiglia per averlo sempre fresco,  mia madre, zia  Anna, sua sorella, insieme a nonna Barbara moglie di Giuseppe Teti u Tamburinaru dopo una alzataccia cominciavano ad impastare con i pugni la farina con l’acqua dentro a “majija” per ottenere l’impasto necessario a fare una certa quantità di pane. Completata questa operazione l’impasto veniva posizionato sotto tante coperte per garantire una buona levitazione requisito necessario questo per ottenere del buon pane.

Dopo la necessaria lievitazione si “panijava”, si divideva cioè l’impasto per preparare Forno e CaminoPanietti”,  “ Vucciajati” e “Passamani” che, una volta che il forno era alla giusta temperatura e dopo che si era pulito il suo fondo dalla cenere con un attrezzo chiamato “cajipu” inumidito con l’acqua (un palo sottile e lungo circa due metri con degli stracci ad una delle sue estremità), venivano infornati per la cottura.

Il forno veniva acceso usando “fraschi” (rami secchi di alberi) che si era provveduto a raccogliere in uno dei piccoli boschi presenti nei pressi di Francavilla. I “fraschi” venivano raccolte in un unico grande mazzo e legate tra di loro venivano trasportate a casa dalle donne sulla testa.

Bisognava aspettare poco per cominciare a sentire il profumo del pane che piano piano si espandeva per tutta la “ruga” e un po’ di più per poterlo assaggiare in tutta la sua fragranza. Il pane caldo appena sfornato veniva preparato con “i salimuori” e per noi era una prelibatezza.

Era anche usanza far cuocere “avanti furnu i pitti” che venivano farcite con tanti ingredienti, ingredienti che potevano variare di volta in volta.

Il pane una volta cotto e sfornato veniva conservato dentro un grande cesto costruito artigianalmente con delle canne che si chiamava “u cipasturi”.

Per il consumo si seguiva un ordine prestabilito. Si consumavano prima i “vucciajati” poi i “panietti” e infine “ammojjati” (ammorbiditi) nell’acqua i “passamani”.

Il pane, che era l'alimento principe e che rappresentava tutti i sacrifici e le fatiche che erano necessarie per vivere, era sacro e i nostri genitori ci dicevano che non si poteva e non si doveva buttare, era peccato, lo si consumava tutto fino all’ultimo “tuozzulu” (pezzettino), tanto che quello che avanzava dalla cena veniva utilizzato la mattina dopo per fare colazione con il latte, si faceva cioè “a suppa”.

Oggi quel pane non c'è più, come non c'è più quella cultura del rispetto per un alimento che rappresentava e rappresenta ancora per miliardi di uomini e di donne spesso la sola, ed è già tanto, fonte di alimentazione.

Antico forno a legna

 

 

 

Pane Casareccio

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