Francavilla Angitola - Il Paese del Drago
Mio nonno,
Sbulica u Tamburinaru...
L’unico riconosciuto suonatore di tamburo al mio paese era Sbulica, uomo dalle tante e varie occupazioni ingegnose.
Tamburinaro, nelle vigilie e solennità religiose, gli toccava girare le vie da cima a fondo; era anche controllore e caricatore d’orologio, quello della torre campanaria della santissima chiesa del Rosario, in piazza; ed era servitor di messa ed accompagnatore di morti, e valente innestatore di viti e potatore di ulivi.
Ma quando accompagnava i morti, crocifero, avanti a tutti, quella volta la croce svettava per davvero solennemente, come a voler caritevolmente sospingere verso il cielo l’anima riluttante del povero trapassato; come se la volesse persuadere a raggiungere, presto presto, il suo creatore, sottraendola all’ammiccante Satanasso.
Più che sagrestano, Sbulica era l’aiutante-segretario di don Carmelo Foti, in parrocchia e fuori. Eseguiva e curava tanta parte del cerimoniale di chiesa, meno quella che pretendeva la sacra unzione; tranquillizzava le fedeli che domandavano preghiere pro-defunctis o secondo le loro segrete e pie intenzioni; prenotava, infine, la celebrazione di messe lette, cantate e gregoriane. A Pendino le tariffe furono popolari, sempre.
La vita, allora, scorreva quieta ed impigriva nell’ordinaria amministrazione. Un certo lavoro impegnativo esplodeva solo nelle poche feste e dopo Pasqua, quando, facendo coppia col parroco, andavano tutt’e due a perlustrare il ricco ed esteso territorio della parrocchia, a benedire le casette di campagna, le stalle, le masserie e, pure, i pollai.
La santissima parrocchia delle Grazie godeva di redditi cospicui ed era detta la più ricca del paese.
E pensare che quella rispettabile sua estensione di terreni, coltivandola a dovere, avrebbe potuto assorbire, forse, tutta la manodopera dei pendinuoti sollevandoli, così, dall’angustia della disoccupazione e della fame. Invece era il "godimento" del soprastante o dei pochi massari o del parroco stesso.
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Quando cadeva, dunque, il tempo della benedizione delle case quella straordinaria e rara coppia doveva mettersi in moto. Il parroco mostrava segni di insofferenza con qualche giorno di anticipo, per quel liturgico - forzato - girovagare a piedi; obbligato a sudare e a sbuffare sotto il sole, coll’unico refrigerio dell’ombra degli alberi o del trespolo di qualche pia contadina. Certo, quattro - cinque giorni per le campagne, erano bastevoli a sfiancare qualsiasi costituzione non adusata. Ma le confortevoli soste, fuori o entro le casette coloniche, all’aria mitigata, lo ricaricavano per le successive tappe e lo incoraggiavano ad accettare qualche bicchier di vino, seduta stante spillato, per riordinare le forze.
Quando incontrava facce pià; aperte e confidenziali, allora prolungava la sosta, si indugiava con pià; compiacenza. Qui, tirava il grande fazzoletto bianco e si asciugava il sudore, dietro e sotto il collo, sulla testa e sulla fronte. Qualche volta poi - per godersi tutto quel breve refrigerio - si sbottonava la tonaca, se la toglieva anche, e la sbatteva prima di appenderla ad un ramo. Si vedeva, allora, don Carmelo, nella sua enormità polifemica sbuffante, rimboccarsi le maniche e scuotersi di dosso quella sottilissima polvere di Scórdari, color tabacco, che si infila dovunque e che già lo ricopriva dalla testa ai piedi
Pure i pantaloni si arrotolava sino al ginocchio e in quel godimento, senza falso ritegno pretesco, mostrava le sue gambe grassotte, già foderate di polvere giallastra.
In quella sua ristoratrice positura, gli si scoprivano subito, lungo le gambe, rigagnoletti di sudore che, nei loro percorrimenti, lasciavano distinguere i peluzzi di un nero pià corvino.
E l’altro - Sbulica - paziente come Giobbe, lì, sofferente muto, aspettava di ripigliare la marcia, senza segni di fastidio o di stanchezza. E pareva, nel suo silenzio, rammaricato di non poter dispensare ed alleggerire il compagno da quell’obbligato giro; quasi quasi pareva disposto ad accollarsi perfino il peso del corpo del suo parroco, pur di non vederlo spazientito o sentirgli scappare qualche imprecazione, non tanto serafica sulla bocca di un prete. Ah ! se avesse potuto. Lui, Sbulica, l’avrebbe dispensato da quel giro benedicente. Ma erano i fedeli a volerlo, a pretendere la benedizione delle case, per tenere lontani malanni e disgrazie,"malocchi" e "diavulicchi".
Durava quattro-cinque giorni codesta loro fatica agro-dolce e rientravano, ogni sera, col fiato grosso e carichi di uova e soppressate, e qualche capretto. Don Carmelo era per i cibi forti e corpulenti, non disdegnava la cannata di vino, il sigaro, e i conversari giocondi, durante le sue riservate partite di tressette. A rivederlo dopo la benedizione delle campagne, appariva disteso, quasi in serena convalescenza ed acquetato. Intimamente soddisfatto e convinto che, almeno per un altro intero anno, nessuna liturgia l’avrebbe obbligato a rigirare le campagne.
Chi frequentava, allora, la chiesa delle Grazie, aveva occasione di incontrarsi pià; spesso con Sbulica che col parroco. Lo si notava sfaccendare da un altare all’altro, o in sagrestia, o prestare attenzione alle devote, o sostare davanti alla piazzetta della chiesa, accanto ad un albero di acacia, o conversare con i coetanei. Don Carmelo, invece, il parroco, assorto come era solito ed assente, per suo temperamento, lo si coglieva pià; impegnato a seguire certi suoi pensieri o certi suoi lirismi, piuttosto che l’anima dei parrocchiani di Pendino.
Era, infatti, un magnifico facitore di endecasillabi e, in versi, ricordò la tragedia del terremoto di Reggio e Messina; ed in versi evocò la fine di un valente giovane francavillese, Domenico Servelli, caduto sul Doberdò, il giorno dei morti del 1916.(*) Aveva davanti, costui, come si diceva allora, un avvenire meraviglioso ed aveva anche un congiunto - colonnello medico - che disinvoltamente l’avrebbe potuto "imboscare". Ma non ha voluto. I feroci ideali l’accecarono. La patria, allora, era in cima agli stessi pensieri. E, per questo appunto, i ferocissimi mercanti mietono fortune e miliardi, perché tanti ignari ciechi giovani si lasciano mietere dalla morte. Il compianto per quella sorte fu universale in paese ed ancora si sente circolare qualche terzina dedicatoria:
O Francavilla coi tuoi pioppi snelli,
pure le capinere batton l’ali
al nome di Domenico Servelli.
La suonata delle campane era un pezzo raro di Sbulica. Specie quando le suonava a gloria. E le campane della chiesa della Madonna delle Grazie erano diverse dalle altre, inconfondibili. Piccole, squillanti e quasi rampicanti; acute e limpide, da essere sentite in largo raggio di territorio. Voce argentina e filtrante diffondevano; manovrate con perizia, con diletto, e con un maneggio che non irritava, "tringulijavanu"...
La sonata delle campane e del tamburo erano momenti rivelatori di una personalità che facevano di Sbulica un dignitoso personaggio che sembrava pià; impegnato nell’assolvimento di un rito che in quello di un mestiere. Era il pontefice, in ombra, dei riti della chiesa di Pendino.
Libero dalle varie cure della parrocchia e dei parrocchiani di quel mite, insofferente, omerico don Carmelo Foti, Peppe Sbulica lavorava i campi, sovesciava e trebbiava nelle grandi aie. A sera rientrava in gruppo, con altri lavoratori, chiacchierava con i vicini delle semine e del prevedibile raccolto, delle terre a meggese ed a pascolo, dell’uccisione dei maiali e della conservazione delle carni. Codesti vari discorsi si ripetevano, si rinnovavano, restando fermi o seduti davanti alla porta di casa, in attesa di mangiare un boccone, o davanti al focolare. Poi si chiudevano gli usci e si cercava il riposo col fermo pensiero di alzarsi presto l’indomani, per continuare le opere sospese.
Sbulica aveva un secondo pensiero pià; degli altri, quello di suonare "matutino" e non sgarrava mai. E, contemporaneamente al "matutino", si sentiva uno sbattere di porte; si ridestava la vita semplice e sana; si riprendevano le faccende e si notavano rare donne, chiuse nello scialle, - "u vancali" -, a passo svelto, raggiungere la chiesa già aperta; e subito gli uomini a due e a tre, o isolati, con le zappe e i picconi sulle spalle, sfilare verso i campi. I monti all’intorno assaporavano l’alba che chiaramente già si diffondeva.
Sbulica ci svegliava la mattina, ci dava il segno e la garanzia della vigilia o della festività. Le sue mani erano affusolate e maneggiavano i due legni con tanta scioltezza da non lasciarti avvertire mai una battuta discordante, all’invariabile.
bràmbiti – bràmbiti – bru
seguito dall’altra invariabile assonanza
parapum – parapum – parapum
Pochi colpi, poche ripetizioni ed il prodigio festivo si diffondeva, si contagiava da una punta all’altra del paese.
La prima tamburinata Sbulica la svolgeva davanti al portone della chiesa, omaggio e rito alla divinità. Poi misurando ed accordando il passo con la ripidità della stradella a rampe, puntava sul Piano di Brossi. Quando affrontava l’ultimo tratto, dietro la mia casa, me lo godevo guardandolo dalla finestra, dal versante del mulino, seguito da tre-quattro ragazzi che, a tratti, allungavano le manine per toccargli il tamburo, come fosse un talismano. Sul Piano cresceva il numero dei ragazzi, ed io, ch’ero passato dalla finestra al balcone, vedevo arrivare il solista di gran cassa. Qui, si indugiavano per riaccordare i due strumenti, consentire ad altri ragazzi di imbrancarsi ai primi e cominciare il vero "giro del paese".
Dopo poche battute, tamburellate a prova, in saggio e in accordo, riprendeva il giocondo e festante
bràmbiti – bràmbiti – bru parapà;m. – parapà;m – parapà;m.
Il primo pezzo, solitamente, veniva orchestrato da fermo. Poi, persuasi del riuscito accordo, si avviavano con corteo di ragazzi; alcuni in abiti féstivi, altri cenciosi e con le natichette di fuori; e qualcuno con la candela in mano che, sfuggito alla madre, preferiva un innocente "giro" dietro al tamburinaro, prima di andare in chiesa. Il compagno addetto alla gran cassa era ciccioso, corto e pigro.
Non si immedesimava nel rito ed appariva svogliato e disattento. Non seguiva il passo di Sbulica, per cui spesso, il paziente Peppe, doveva rallentare. E lo faceva con grazia, senza visibile fastidio; segnava il passo girandosi, come per richiamare la concentrazione, la battuta, un maggiore accordo. Man mano che si snodava la marcia, cresceva il numero dei ragazzi. Alcuni, in coda, fingevano di imitare i suonatori; altri li rappresentavano con gesti ed accordi vocali che rinnovavano la tamburinata. Qualcuno, infine, che aveva un vero tamburino, pretendeva compiere in "straordinaria" il giro del paese, anch’egli con codazzo di coetanei. Era, insomma, una corale festività di ragazzi, vissuta febbrilmente come se non vi fosse nient’altro a cui rivolgere la fantasia. E non c’era nient’altro a cui rivolgerla... Il tamburinaro passava in secondo ordine, appena arrivava la banda. E Peppe tornava in momentanea ombra: assistente all’altare, crocifero, e suonatore trillante di campane.
Eppure i ragazzi non abbandonavano il loro idolo: se lo indicavano a dito e ripetevano il verso della sua tamburinata, che diventava, in trasformato linguaggio - assonanza onomatopeica, e curri ca t’abbàmpa e curri ca t’abbàmpa.
Alla crisi del ’29, si aggiungeva la siccità e la malannata. Ed erano anni di doppia concentrata calamità. Moltissimi campavano appena "spigolando" e le festività religiose di allora mancavano di sfarzo, di spreco e di tripudio. Pure quelle si svolgevano in economia. Ma alle restrittezze sopperiva Sbulica; e lo faceva con una compostezza e un impegno, tanto convinto e ieratico, che riusciva da solo, inventando suonate, novene e chiamate di fedeli in chiesa, a donar tono e calore a quelle fredde giornate.
Il parroco, poi, don Carmelo Foti, non era pretenzioso e lasciava fare. Non pressava e non sollecitava alcuno. Era un autentico democratico e non ricorreva mai alle visioni furibonde dell’inferno per ridurre alla docilità i fedeli o a farli diventare assidui frequentatori della chiesa.
Clima di libertà religiosa esisteva a Pendino, per il parroco e per i fedeli; libera partecipazione; per gli assenti non c’erano né anatemi né indulgenze. E, del resto, anche lui partecipava pià; per un dovere di ufficio che per contrita e sentita devozione. Era presente perché doveva celebrar messa; se no, il popolino, avrebbe temuto carestie e castighi; e, passivamente, assecondava un rituale che, se non l’infastidiva, lo lasciava quasi estraneo.
Per tutto ciò, lungo le vie, la processione della Madonna delle Grazie era piuttosto ridotta; era una mini-decimata solennità, a confronto di quella di san Focas che transitava per le vie, solenne, sopra un fercolo dorato, sorretto dai portatori che avevano già gareggiato per vincere all’asta una delle quattro stanghe; tappezzato di carta-moneta, di ex voto, col serpentone al braccio, con un paese dietro osannante e supplicante e con la banda di Acquaviva delle Fonti.
La festa di Pendino non aveva pretese. Era pià; un obbligo protocollare e liturgico che una esaltazione religiosa. Era una corale maniera schietta di considerarsi e mostrarsi poveri, tutti, davanti a Dio. Lo stesso don Carmelo, in paramenti sacri, ad un certo momento si sperdeva, si ecclissava. Poverino, pesante e grosso per come era, lo si rintracciava accanto ad una pancarella di gelataro.
I gelatari, nelle ricorrenze, venivano da Pizzo e da Filadelfia, e il bicchiere rituale che faceva festa, e pià; richiesto, era quello "d’ammurzunata". Una granita semplice, di mandorle, che lasciava l’odore e il fresco e la dolcezza del bianco frutto primaverile. Anche altro faceva don Carmelo, sul Piano di Brossi. Nelle festività meno solenni, si liberava dai parimenti, "si svestiva", e li affidava a Sbulica. Si dispensava, così, dall’accompagnare il santo nel suo venerabile domicilio; però si risparmiava la salita, obbligatoria al ritorno, per raggiungere il suo ordinario domicilio casalingo. Tutto ciò accadeva senza scandalo; come se avesse don Carmelo stabilito un patto con i fedeli e con il santo: reciproca, tacita, fraterna sopportazione. Di irriverente che cosa compiva ?
Abitava lontano, al punto opposto della chiesa, solo, senza Perpetua, amico del tressette e della briscola; spesso della solitudine. Irreprensibile era solo il tamburinaro. A festa finita riordinava i paramenti, gli striscioni, le tovaglie, rimettendo sull’altare maggiore i candelieri usuali; e gli traspariva una soddisfazione di beatitudine.
Negli anni ‘50, un terremoto ed una alluvione hanno sconquassato Pendino. Pericolanti quasi tutte le case, presto furono ufficialmente dichiarate inabitabili dal Genio Civile. Così che tutto il quartiere fu abbandonato e i pendinoti, allontanati d’autorità, sono andati ad abitare in un villaggio provvisorio di case UNRRA.
La calamità non ha risparmiato alcuno e tutti lamentavano il proprio danno. E, se parecchi hanno avuto assegnate casette migliori di quelle che abitavano, si sentirono tuttavia sconsolati. Allontanarsi dai luoghi, dalle cose abituali, dalla gente amica, è sempre uno sradicamento penoso.
Per fortuna l’uomo è un prodigioso animale di abitudini e scorda facilmente, e si adatta e si intona nel nuovo habitat... Ma i pendinoti si sentivano spaesati e come pesci fuor d’acqua. Ora, anche Sbulica, come gli altri, è uno spaesato. Don Carmelo Foti era già passato a miglior vita e, nella chiesa della Madonna delle Grazie, non si officiava pià;. Scomparsi, per vie diverse, parroco e fedeli. Il povero Peppe, per vincere la noia e per non restare inoperoso, si industriava in nuovi improvvisati mestieri, in uno dei quali rischiò la vita. Era caduto, difatti, da una impalcatura ed era convinto di non esser deceduto per grazia ricevuta.
Negli ultimi suoi tempi scendeva a Pendino solo per devozione alla venerata Madonna e per una nascosta melanconia per la sua casa semidiroccata. Il suo "pellegrinaggio" si spingeva al massimo sino al Calvario "di sotto". Passava in melanconica rassegna le case e le viuzze e si indugiava qua e là, con visibile sofferenza. Era un uomo sbandato e cercava di ritrovarsi. Il Calvario "di sotto" si distingueva nella denominazione paesana da quello "di sopra". Sorgeva su scoglio vivo ed era meta dei parrocchiani pendinoti il giorno di venerdì santo. Ma era, soprattutto, termine fisso ed obbligato di sospiri, ogni mattina e ogni sera, a seconda che si andava al lavoro o si rientrava dai campi.
Là vicino sorgevano varie casette, ora abbandonate e deserte, e rappresentavano una solitaria e melanconica appendice dell’antico borgo. Erano casette rurali di contadini e mezzadri con attorno pollai, porcile e pagliaio e, non lontano, la puzzolente concimaia. Ora vi sono ruderi ma quelle modeste e piccole costruzioni furono pensate e realizzate per il riparo dei raccolti, degli attrezzi e del fieno. Qualcuno aveva anche il forno. Altre, quelle dei pecorari, tutto l’armamentario per ricavare i formaggi, la ricotta, le "tume" e "u pilusu".
Allora, i contadini e i mezzadri si univano e si legavano al padrone, per lustri e lustri e, tante volte, seguivano la stessa sorte di ricchezza o di impoverimento. Erano uniti anche dallo stesso entusiasmo verso i campi; seminavano insieme e lavoravano insieme, per migliorare le colture, per bonificare le zone sterili, e piantavano potavano ed innestavano. Il lavoro era comune e tutto era proiettato nel futuro, si lavorava per il domani e per i figli.
La nostra epoca consumistica disprezza i campi, ama lo sperpero, l’affermazione provvisoria e il soddisfacimento e il trionfo degli istinti. Sbulica, era il suo soprannome. E come ogni nome e cognome simboleggiano o spiegano qualcosa ch’è alla radice dell’uomo, così il suo. Voleva significare, almeno nella parlata del mio paese, aprire, svolgere, sciogliere. E Peppe scioglieva la gente e il paese dalla monotonia.
Mbulica, è il suo contrario; ed anche arraffare ed imbrogliare suole significare. Sbulica, allora, aveva delle prerogative; uomo limpido e paziente nella sua umile vita di coltivatore di campi, di puntuale aiutante di don Carmelo Foti, di attento controllore della torre campanaria, di emerito tamburinaro e di compunto crocifero. Un altro merito assommava (s’è un merito), era figlio di un bersagliere che aveva partecipato alla conquista di Roma, battendosi a Porta Pia. Codesta nota civica può rappresentare l’orgoglio dei laici francavillesi, veramente sparuti. Vi fu un rappresentante del paese a Porta Pia. Ma quel potere allontanato dal cannone, lentamente si è andato insinuando e infiltrando (come la polvere di Scordari) in tutta la nostra povera vita che, ora, non è né laica né confessionale.
Quel personaggio e quel tempo delle monotonie e delle festività semplici, non ci sono pià;. La torre campanaria è caduta, e Peppe Sbulica non ha avuto continuatori. Quando arrivano le ricorrenze dei santi, arrivano anche le canzonettiste; per cui si assiste ad uno spettacolo di mezza varietà, tra il porno e il mistico pseudo. E addio devozioni, addio "diavulicchi".
(*) Al nome di Domenico Servelli va affiancato quello del Tenente Focas Lìmardi
- avvocato - anch’egli caduto in quella sciagurata prima guerra mondiale. Tutt’e due rappresentavano la giovane aristocrazia studiosa e dotta del paese. Un paese ad economia agricola, lontano dai centri, esprimeva già rappresentanti di una classe dotta ed evoluta.
Tratto dal libro Il Paese del Drago di Vittorio Torchia
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