Francavilla Angitola - Il Paese del Drago
Gli anni sessanta nell’Italia del dopo guerra sono stati definiti dagli studiosi e dagli economisti, gli anni del "boom economico" e del "miracolo economico": un paese che aveva conosciuto i drammi della guerra e della povertà e della fame, scoprì, grazie anche alla congiuntura internazionale e agli aiuti americani, il benessere. Le migliorate condizioni economiche consentirono a molte famiglie di poter acquistare quegli elettrodomestici che una rinnovata pubblicità decantava come indispensabili per essere moderni: frigoriferi, lavatrici, radio transistor e televisori.
Tutto questo benessere nascondeva i drammi di milioni di contadini, per lo più del sud che, costretti dal bisogno derivante dalle assurde condizioni di vita che imponevano i latifondisti, visto lo sviluppo industriale al nord, erano costretti ad emigrare.
Le campagne della Calabria e generalmente quelle del sud sono state i serbatoi della manodopera che alimentava il sistema industriale del nord.
Questo ha portato allo svuotamento di interi paesi e all’abbandono delle campagne e al fallimento di quell’economia basata sull’agricoltura.
Il benessere ha cambiato anche le abitudini e le necessità degli italiani: Insieme alle condizioni economiche sono cresciute anche le aspettative sociali e culturali. È cresciuto il livello di alfabetizzazione e la voglia di riscatto. Dopo pochi anni ci sarà quella "rivoluzione socio-culturale" che è passata alla storia come "68".
Anche al nord, se pur con meno disagi, i contadini fuggivano dalla campagna per andare verso la città. Certo, per loro era più facile, il più delle volte si dovevano spostare solo verso il capoluogo dove era presente l’industria, ma non cambiavano il loro contesto. Non avevano problemi con la "lingua" e comunque erano "a casa loro".
Il dato è che al nord le campagne si sono svuotate.
Si pensi alla provincia di Torino, dove la presenza della Fiat e del suo indotto hanno attratto milioni di contadini verso le catene di montaggio.
Le condizioni economiche, sociali ed identitarie di coloro che restavano nei campi erano drammatiche.
Non si trovava più manodopera e non c’erano più le condizioni per perpetrare quel ciclo socio-economico-antropologico che fino a qualche anno prima sembrava potesse durare per l’eternità.
Le nuove opportunità e la possibilità di vivere in città, lontano dai cattivi odori delle stalle, dalla dura vita dei campi e da una società rurale ancora ferma al medioevo, oltre a molti uomini, ha convinto anche molte donne a trasferirsi in città per vivere la propria voglia di emancipazione e godere di quanto lo sviluppo tecnologico metteva a disposizione. Si preferiva lavorare in fabbrica piuttosto che stare in campagna a lavorare la terra.
Le famiglie rimaste nei campi, in questo caso nelle Langhe, senza manodopera e senza la possibilità di poter trovare moglie per i propri figli, erano disperate.
È in questo contesto che qualcuno ha avuto l’idea di fare incontrare "due debolezze" per dare una prospettiva a quel territorio. Da una parte contadini, spesso maturi, che senza giovani donne non potevano dare continuità al loro lavoro nei campi, nè avere la possibilità di costruire una famiglia, con l’unica prospettiva possibile di abbandonare le terre che da generazioni coltivavano.
Dall’altra, un sud dove le donne erano abituate a lavorare e ad obbedire, "senza tanti grilli per la testa", a vivere spesso nella miseria e a non avere alcuna reale opportunità di migliorare le proprie condizioni di vita o sperare in un futuro più roseo.
Ci pensarono i "ruffiani" o per dirla con il dialetto del luogo "i bacialè" a far incontrare questi due bisogni e "combinare matrimoni" tra persone che non si erano mai viste e che, nel giro di una settimana si trovavano ad essere marito e moglie.
Fu il periodo della calata dei piemontesi in Calabria, così come in altre regioni del sud.
Anche a Francavilla Angitola in quegli anni ci sono state tantissime giovani contadine che, nel giro di pochi giorni, si ritrovarono sposate ed emigrate.
Queste donne, una volta arrivate al nord, venivano chiamate in modo dispregiativo con l’appellativo di "calabrotte".
Purtroppo l’ignoranza e la memoria corta fanno sì che non si vuole riconoscere e ricordare il sacrificio di quelle oneste e giovani donne e, che grazie a quel lavoro e a quel sacrificio oggi le Langhe sono un territorio ricco.
Si è trattato di una emigrazione nell’emigrazione, taciuta, di cui non si voleva parlare e ancora oggi si ha difficoltà a farlo.
Ricordo quando da ragazzino, avevo sette o otto anni, facevo delle domande e non ricevevo mai risposte, solo: stai zitto.
Ovviamente molte delle cose che venivano dette, come il racconto di grandi patrimoni e la possibilità di vivere in modo agiato erano molto risibili: l’unica cosa vera è che quelle donne avrebbero continuato a lavorare alacremente la terra e che sarebbero state usate come fattrici per dare alla luce quei figli a cui poter trasferire quelle terre che si possedevano da moltissimi anni e che rischiavano di restare incolte.
Per le "calabrotte" cambiava solo il luogo dove lavorare ma, per loro la fatica restava la stessa, anzi era accresciuta perchè, oltre a dover accudire la campagna dovevano anche sobbarcarsi il peso di una famiglia quasi sempre patriarcale.
Quelle donne raramente hanno potuto governare gli affari e le vicende delle loro nuove famiglie, non ci si fidava, il tutto veniva governato dalle suocere.
Mettiamoci pure che l’italiano in quegli anni di fatto non era una lingua "nazionale", si usavano i dialetti e ognuno parlava con il suo idioma con l’impossibilità di riuscire a comunicare.
Quella delle "calabrotte" sembra una storia lontana nel tempo e frutto di fantasia: peccato che è una storia vera, frutto di quel distorto sviluppo economico che ancora continua a produrre squilibri nel nostro paese e che è costato tanti sacrifici, ha annullato tanti sogni e soffocato tanti sentimenti.
Quei sacrifici hanno consentito di avere un territorio, quello delle Langhe, divenuto un’eccellenza agricola con i suoi prodotti che attirano migliaia di turisti e che rappresentano con orgoglio il "made in Italy" nel mondo.
Peccato che ancora una volta i calabresi sono chiamati a fare la differenza, lontano dalla propria terra e a non poter esprimere e utilizzare le loro competenze nella loro terra, per far crescere e far sviluppare una regione piena di storia di cultura e di risorse.
A quando classi dirigenti degne di questo nome?.
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