Dalla Calabria nel Mondo
Emigranti in attesa di partire

....La solita strada, bianca come il sale
il grano da crescere, i campi da arare.
Guardare ogni giorno
se piove o c'e' il sole,
per saper se domani
si vive o si muore
e un bel giorno dire basta e andare via.

Luigi Tenco

Periodicamente si riaffacciano alla mente quelle strazianti scene che si verificavano ogni qualvolta mio padre e i suoi amici erano costretti a partire da Francavilla Angitola per raggiungere la località, in Italia o all’estero, per andare a lavorare e garantire così una vita dignitosa e qualche opportunità in più alle loro famiglie.

Insieme a quelle scene ricordo con angoscia i preparativi che caratterizzavano i giorni precedenti la partenza.

Oltre a comprare quello che poteva essere utile e necessario (vestiti, scarpe, maglie, valigie...) e a valutare quelle cose che, magari possedendole, ;potevano essere trasportate come i “sazizzi e i supprassati”, si cercava di completare tutte quelle attività già iniziate in campagna e di risolvere tutte quelle incombenze di carattere burocratico che si erano eventualmente rese necessarie e di fare tutti quei piccoli lavori in casa e non che in qualche modo richiedevano la mano dell’uomo.

Tutto si svolgeva in un clima surreale, di apparente calma, ma con una strana tensione dentro casa.

Cercando di ricordare se si era pensato a tutto, il rasoio con le lamette, il filo e l’ago, le figurine di San Foca martire e della Madonna delle Grazie, le foto di tutti noi della famiglia, i documenti necessari per oltrepassare il confine e raggiungere la Germania, la richiesta dell’azienda presso cui mio padre doveva lavorare e che consentiva il soggiorno, non ci si doveva dimenticare di quella medicina che aveva fatto tanto bene nel curare l’ultimo malanno perché non si sa mai o di un po’ di camomilla col fiore di quella selvatica che raccolta e messa a seccare è molto buona, si tentava di esorcizzare quella snervante attesa.

Nel frattempo si era già provveduto a prenotare la macchina da noleggio e il giorno prima della partenza si era fatto il giro di tutti gli amici e parenti per un saluto.

Quasi sempre la partenza avveniva nel pomeriggio e la mattina la si utilizzava non solo per chiudere i bagagli ma anche per fare una passeggiata in campagna, come per constatare che tutto fosse a posto, e per Francavilla come se si sentisse la necessità di memorizzare tutti i suoi angoli.

Non mancavano naturalmente le raccomandazioni a noi bambini e insieme ad esse la promessa che quando sarebbe tornato se fossimo stati buoni avremmo avuto come premio un bel regalo.

Infine arrivava il momento della partenza, il momento del distacco e dei saluti.
Noi bambini piangevamo, mentre le nostre mamme e i nostri parenti che erano tutti presenti, apparentemente dimostravano tanta calma e tanta dignità, calma e dignità che nascondevano una grande tristezza.

Una tristezza vergata di rassegnazione perché quella scelta di emigrare era maturata dopo aver valutato, ponderato e discusso e alla fine si era ritenuta inevitabile per garantire con il proprio lavoro un adeguato tenore di vita alla propria famiglia. A quella scelta il paese non offriva valide alternative.

La partenza avveniva da sopra il Piano, dove le donne portandoli in testa avevano trasportato i bagagli, allora non c’erano strade che consentissero alle macchine di scendere fino a Pendino.

Dopo gli ultimi concitati attimi la macchina si metteva in moto e appena svoltava l’angolo della chiesa di San Foca si tornava a casa “luocchi luocchi” e quelle case che erano piccole e strette all’improvviso sembravano immense e vuote, e le lacrime che ancora scorrevano parenti, amici e vicini cercavano di esorcizzarle dicendo che piangere era “malagurio” e che in qualche modo era come se tenessimo il lutto.

Diverse volte mi è capitato di vedere presso la stazione ferroviaria di Lamezia Terme dei calabresi che emigravano e diverse volte ho potuto assistere alle drammatiche e strazianti scene del saluto tra chi partiva e chi restava, tra le mamme “mbulicati nto vancali” che piangevano e si disperavano per i propri figli, in modo particolare se a partire erano le femmine, e i figli che si affacciavano dai finestrini a protendersi fino quasi a cadere come per un ultimo simbolico abbraccio.

Dopo la partenza incominciava l’attesa per la prima lettera, il telefono per comunicare era ancora appannaggio di pochi perché molto costoso, non solo per avere delle notizie sulla salute, sul viaggio e sulle condizioni di lavoro ma anche per avere l’indirizzo.

Nelle lettere di volta in volta si allegavano le fotografie, le immagini dei santi di cui si era svolta la festa al paese o qualche banconota per noi ragazzi. Naturalmente le lettere contenevano sempre le raccomandazioni per tutti noi e i saluti per un lungo elenco di parenti, amici e conoscenti.

Per le donne che erano rimaste, insieme alla lunga attesa per il ritorno, cominciava una vita di responsabilità legate all’educazione dei figli, alla coltivazione dei campi, al governo degli animali, alla necessaria capacità nell’amministrare i soldi che mensilmente arrivavano tramite vaglia postale e se si avevano delle figlie femmine a provvedere a comprare la dote.

Naturalmente le donne, dette anche vedove bianche, dovevano avere un comportamento tale che in nessun modo e per nessun motivo potesse dare adito a maldicenze e chiacchiere. E quelle donne, nonostante i lunghi periodi trascorsi lontano dai propri mariti, salvo rarissimi casi, hanno saputo non solo assolvere ai compiti loro assegnati ma anche rispettare e aspettare i propri mariti con grande dignità.

Oggi la Calabria vive una condizione di grande contraddittorietà, da una parte è diventata terra di immigrazione e nello stesso tempo è ancora terra di emigrazione.

Certo non si parte più con le valigie di cartone, non si è più analfabeti e l’emigrazione di oggi interessa giovani diplomati e laureati che in Calabria non riescono ancora a realizzare i loro sogni e a costruire la propria vita vicino ai propri cari e nel loro contesto sociale e culturale.

Con essi va via quella che potrebbe e dovrebbe essere la nuova classe dirigente della Calabria e del nostro paese, spesso emigrano verso quei paesi stranieri o quelle città italiane in cui i calabresi hanno saputo dare il meglio di loro contribuendo allo sviluppo di quelle realtà.

Ancora oggi, specialmente nei mesi di luglio e di agosto per le vie di Francavilla Angitola, circola una macchina con sopra delle trombe acustiche amplificate, che annuncia così come faceva un tempo Pascali Limardi che “tutti quelli che vogliono mandare pacchi o altra merce a Milano, Torino, Alba, Bra, Cuneo e Roma” li devono portare per il giorno tale presso tale località.

Dall’elenco si capisce subito che sono le città italiane dove in modo massiccio i francavillesi si sono trasferiti un tempo e dove ancora grazie anche ai parenti o agli amici che lì vivono continuano ad emigrare.

Certo non si parte più per l’America, l’Argentina, il Brasile e il Canada con i bastimenti ma si continua ancora oggi a prendere la valigia e ad andare in Germania, Svizzera, Belgio, Francia, Inghilterra …….

Personalmente credo che oggi quella dell’emigrazione a differenza del passato non sia sempre la scelta più giusta ma che bisognerebbe assumersi la responsabilità di lottare e pretendere che i nostri giovani abbiano una reale alternativa lavorativa nel paese natale e possano così utilizzare le loro intelligenze per lo sviluppo della Calabria e del Sud.

Da bambino amavo i treni e a loro erano legati molti dei miei sogni, oggi, forse perché da calabrese li ho associati al distacco dai propri cari, all’abbandono della propria terra e alla nostalgia, mi trovo d’accordo con le parole di una famosa canzone di Otello Prefazio, noto cantastorie calabrese, “e mannaia l’ingegneri che inventò la ferruvia..” che per alcuni aspetti faceva eco alla sua altrettanto nota canzone che diceva “Qua si campa d'aria”.

Emigrati francavillesi a Milano

 

Francavida

 

Emigranti in un cantiere

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